«Enrico Filippini oltre l’industria culturale»
A trent’anni dalla scomparsa un saggio analizza il percorso dell’intellettuale locarnese
Filosofo, letterato editore, traduttore e propugnatore della migliore letteratura in lingua tedesca del Novecento, scrittore neoavanguardista, apprezzato giornalista culturale e critico militante: non è semplice etichettare la multiforme attività intellettuale di un personaggio come Enrico Filippini di cui quest’anno si celebra il trentennale della scomparsa. Ci riesce bene con un saggio appassionato il giovane studioso ticinese Marino Fuchs che ha appena pubblicato per Carocci «Enrico Filippini editore e scrittore» nel quale traccia un ritratto a tutto tondo dell’uomo di cultura locarnese evidenziando il legame tra le sue varie attività e l’impegno etico. Lo abbiamo intervistato in proposito.
MATTEO AIRAGHI
Marino Fuchs, da dove nasce il suo interesse per Enrico Filippini e perché, a suo avviso, un intellettuale di questo spessore è stato per troppo tempo così poco indagato sia in Svizzera che in Italia?
«Nei miei studi mi sono spesso interessato ad autori e ad autrici con un’attività eclettica e con un’apertura internazionale. Determinante è stata poi l’esistenza dell’Archivio Filippini alla Biblioteca cantonale di Locarno, città dove sono nato. Ho così avuto la fortuna di conoscere Filippini attraverso le sue carte. Una delle ragioni che ha a lungo ostacolato un’indagine della sua opera è stata la difficoltà di dare conto in modo esaustivo delle sue attività: la formazione filosofica; il lavoro editoriale; la traduzione; la produzione letteraria e giornalistica. Da una parte, la dispersività e l’irregolarità della sua opera, la mediazione tra lingue e culture diverse, sono motivi di estremo interesse; d’altra parte gli studi, concentrandosi su singoli aspetti, ne hanno restituito un’immagine parziale e frammentata che non lo ha finora valorizzato pienamente. Lo studio dell’archivio svolge un ruolo fondamentale per superare un pregiudizio ancora presente, che tende a separare l’opera creativa di un autore dal suo lavoro, ad esempio nell’editoria o nel giornalismo. Solo ricostruendo la rete di interessi, di collaborazioni e di contatti è possibile comprendere l’importanza dell’impegno etico che mosse Filippini all’interno dell’industria culturale».
Ci parli del rapporto a dir poco difficile tra Filippini e la sua terra d’origine.
«Il rapporto conflittuale di Filippini con la Svizzera ha segnato profondamente il suo percorso umano e artistico. Tuttavia, a mio giudizio, in Ticino tale argomento ha monopolizzato l’interesse pubblico, oscurando la comprensione della portata di Filippini come intellettuale, che va ben al di là dei confini non solo regionali ma anche nazionali. I tempi sono maturi per rivalutare anche questo tema in modo più distaccato, ad esempio contestualizzandolo attraverso l’affinità che Filippini ebbe con altre voci critiche verso la Svizzera, come ad esempio quella di Max Frisch. Un’altra pista di ricerca la fornisce la stessa produzione letteraria di Filippini, dove la condizione di heimatlos, di sentirsi senza patria, travalica il caso particolare e diventa una condizione esistenziale caratteristica della contemporaneità».
A ventidue anni Filippini sceglie Milano: cosa rappresenta per lui il capoluogo lombardo in quel preciso momento storico?
«Filippini visse in prima persona il rinnovamento culturale che caratterizzò l’Italia nel secondo dopoguerra e che ebbe Milano quale centro. Lì si inauguravano nuove librerie, ad esempio la Libreria Internazionale Einaudi aperta nel 1951 dall’ex-partigiano Vando Aldovrandi. L’editoria era in procinto di vivere uno dei periodi più vivaci del Novecento: aprivano Feltrinelli, il Saggiatore di Alberto Mondadori, Mursia, FrancoAngeli, Sugar, Adelphi. Intensi poi furono i rapporti tra le case editrici e le gallerie d’arte, ma anche con il Piccolo Teatro, dove Filippini assistette spesso alle prove di Strehler. Gloriose istituzioni come l’Accademia di Belle Arti a Brera ripresero la loro attività dopo la chiusura forzata del tempo di guerra. Il Bar Jamaica attirava nuovamente artisti, musicisti, poeti e anche i futuri membri del Gruppo 63. Il cambiamento culturale arrivava anche dall’Università, in cui personaggi straordinari come Antonio Banfi e poi Enzo Paci, maestri di Filippini, non aggiornavano solamente il dibattito filosofico ma partecipavano attivamente a un rinnovato clima di impegno politico e civile. In tale contesto Filippini produsse la prima traduzione mondiale della Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl. Filippini nel 1958-60 fu poi artefice di uno dei primi casi di “comune” studentesca, l’appartamento che condivideva con altri studenti in viale Maino fu frequentato oltre che da Paci; da architetti (Gregotti, Gardella); da pittori (Carmassi, Margadonna); da psicanalisti (Fornari, Musatti); e anche dai ticinesi Guido Pedroli e Giairo Daghini. In quelle occasioni si discuteva di filosofia, politica, arte e letteratura con una crescente sensibilità verso le questioni poste dal marxismo e dalla fenomenologia. Per Filippini si trattò di una vera e propria palestra per la sua attitudine alla mediazione culturale».
Arriva così la sua esperienza con Feltrinelli: in che modo si sviluppò il suo rapporto con un editore di quel calibro?
«Filippini si avvicinò progressivamente alla letteratura e all’editoria tramite traduzioni saltuarie per Feltrinelli, già durante l’Università. All’inizio degli anni Sessanta l’impegno si formalizzò con l’impiego di redattore per la narrativa straniera. Ciò segnò una svolta nel suo percorso, che passò dalla filosofia e da un modo accademico di intendere la ricerca a un progetto culturale più militante. La letteratura e la critica divennero fondamentali campi di indagine dei problemi più acuti della cultura contemporanea, che a quell’altezza coincidevano nella verifica dei linguaggi e delle ideologie, nello smascheramento dell’inautenticità, nella questione dell’alienazione. Filippini trovò in Feltrinelli un editore giovane e inizialmente convinto del ruolo dei libri come strumenti di cambiamento e di mediazione tra orizzonti linguistici transnazionali. La traduzione e la progettazione delle collane letterarie acquisirono fin da subito un carattere militante, ovvero furono utilizzate per introdurre cambiamenti nel panorama editoriale. Si promuoveva la neoavanguardia italiana accostandola a opere straniere riconducibili alla letteratura sperimentale».
È impossibile scindere l’idea di Enrico Filippini dall’esperienza con il Gruppo 63: cosa può dirci in proposito anche in relazione al suo rapporto col poeta Edoardo Sanguineti?
«Il Gruppo 63 nacque nel piccolo ufficio della Feltrinelli, dove Enrico Filippini e Valerio Riva, tra il 1960 e il 1963, avevano creato le condizioni ideali per promuovere una nuova idea di letteratura. Filippini aveva tradotto gli autori tedeschi del Gruppo 47 e aveva anche partecipato a un loro incontro a Berlino nell’ottobre 1962. Con Nanni Balestrini decisero di replicare l’esperienza del Gruppo 47 in Italia. Al primo incontro annuale del Gruppo 63, svoltosi a Palermo, Filippini conobbe il poeta Edoardo Sanguineti con il quale iniziò un duraturo rapporto di amicizia e di collaborazione, testimoniato dalle loro lettere. Ho curato anche l’edizione del loro Carteggio (1963-1977), che uscirà nella prossima primavera presso l’editore Mimesis».
E poi si dovrebbe parlare del Filippini scrittore, del traduttore, dello sceneggiatore nonché del giornalista che guidò la redazione culturale de “la Repubblica” dal 1976 fino alla prematura scomparsa nel 1988: studiandolo da vicino che idea si è fatto di questo personaggio poliedrico e quali aspetti di questa straordinaria figura secondo lei attendono di essere ancora approfonditi?
«Nel mio libro l’opera letteraria di Filippini è rivalutata nella sua interdipendenza con gli altri aspetti che hanno fatto di lui un intellettuale multidimensionale. Un approccio utile per comprendere anche altri letterati-editori, traduttori, giornalisti che sono spesso dimenticati poiché lavorano dietro le quinte dell’industria culturale. Tale è anche il senso del Premio Enrico Filippini, voluto da Paolo Mauri e da Irene Bignardi, conferito dal 2013 nell’ambito degli Eventi letterari Monte Verità. Attendono di essere ancora approfonditi gli apporti di Filippini alla conoscenza dell’America latina e di Cuba, la sua opera saggistica, le sceneggiature, le produzioni televisive e radiofoniche, spunti che saranno rilanciati in un convegno che si terrà il 19 e 20 ottobre prossimi alla Biblioteca cantonale di Locarno, in occasione del trentennale della scomparsa di Enrico Filippini».
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